Il Veneto e i suoi panini: capitolo primo, il pane
Esplorare il Veneto nelle varietà dei suoi panini significa, anzitutto, partire dal pane nelle sue ricche variazioni.
Di Laura Rizzato
Il pane è un elemento e ingrediente non secondario in questa regione, che si rivela piena di forme e tipologie, ciascuna con la sua peculiarità e la sua storia: bossolài (o bussolài), pan biscotto, bibanesi, ciòpa e ciopètta, tramesin e ciabatta sono solo alcuni, forse i più noti, che non mancano mai nei cestini del pane delle tavole calde e dei ristoranti nel territorio.
Cominciamo con i bossolài, tipicamente chioggiotti e marinanti (di Sottomarina), che per me si legano anche al ricordo affettivo di mia nonna, che abitava a Chioggia e che ce ne regalava sempre qualche sacchetto ogni volta che si andava a trovarla; la mamma, poi, me lo faceva apprezzare, oltre che nel pasto, anche con la Nutella nella pausa dai compiti pomeridiani.
Da non confondere, infatti, con gli omonimi biscotti dolci tipici dell’isola veneziana di Burano, i bossolài (o bussolài) di cui parliamo sono “una sorta” (tra molte virgolette!) di taralli salati, rintracciabili in tutti i panifici appunto chioggiotti e usati in zona come sostituto del pane. Il bossolà ricorda il pane che i pescatori portavano in barca durante le lunghe campagne di pesca. L’impasto è costituito da farina di grano tenero, acqua, olio extravergine di oliva, lievito di birra, strutto, sale: la pasta che si ottiene, della stessa consistenza di quella utilizzata per i grissini secchi all’olio, viene modellata a forma di ciambella allungata (alta circa una spanna o poco meno) non più spessa di un dito, con un grande buco centrale. Normalmente sono venduti sia sfusi che preconfezionati all’interno di sacchetti di plastica. Si conservano a lungo, mantenendosi fragranti anche per alcune settimane, e accompagnano perfettamente sia la cucina marinara sia quella di terraferma, sia il salato – con la soppressa veneta sono divini! - che il dolce.
Passiamo al pan biscotto. Prodotto in quasi tutta la regione, è tipico del Basso Vicentino e del Polesine. Di antica tradizione, il pan biscotto era tradizionalmente preparato nelle "casade" o fattorie di campagna, dove vi era un forno a legna che veniva adoperato dai salariati. Mediamente si faceva il pane per la famiglia ogni 15 giorni, ed era quindi necessario ottenere un prodotto facilmente conservabile (questo pane, infatti, dura anche 6 mesi). Gli anziani dicevano: col pan tuto xsè pi bon (“con il pane tutto è più buono”), e così lo accompagnavano ad ogni tipo di pietanza, persino alla frutta: pan e pomo, pan e pero, pan e nose, e persino pan e anguria! Forse una volta l'azione principale era quella di sfamare tante bocche con pochi costi, ma poi con il tempo qualcuno deve essersi accorto che era veramente buono perché tantissime persone ancora oggi ne fanno uso a tavola o mangiano la frutta accompagnata dal pan biscotto, e non certo perché non hanno niente altro da mangiare, come magari poteva essere nei tempi passati. Molto friabile e croccante, ha un colore uniformemente dorato e l’alveolatura che ricorda quella di una spugna molto ridotta.
Un’altra tipologia è quella dei bibanesi, che prendono il nome da Bibano, frazione di Godega di Sant’Urbano, piccolo centro a nord di Treviso. Qui, da diverse generazioni, ha sede l’azienda Da Re, che ha dato forma a questo pane e che, nonostante si sia più volte ampliata e rinnovata e costituisca oggi uno dei maggiori panifici attivi nel Nord-est, non ha perso le caratteristiche di impresa a carattere artigianale. L’impasto di questi panetti croccanti e friabili è ottenuto utilizzando farine di frumento particolarmente ricche di glutine e olio extravergine d’oliva. Lavorata a mano dopo una lievitazione molto lenta (almeno ventidue ore), la pasta è lievemente spolverata di semi di sesamo. Quindi si spezza e si stira a mano in modo da formare tanti piccoli tocchetti cui dare la classica forma dei bibanesi, che vengono poi cotti al forno.
C’è poi un’altra varietà che mi ha davvero incuriosito: la cosiddetta ciòpa o ciopètta. I miei nonni utilizzavano questi termini per definire una generica pagnotta, e non una tipologia specifica; tuttavia, trattandosi di una delle tipologie più diffuse e comuni nella regione, era forse anche il pane più frequentemente usato nella loro tavola, ragione per cui ogni varietà veniva nominata in questo modo. Ad ogni modo, si tratta di un impasto lavorato a lungo, costituito da farina di grano tenero, acqua, pasta acida, sale, lievito di birra. La ciòpa ha mollica compatta e crosta dura. Tostata o rafferma, la ciòpa è ideale per essere abbinata a zuppe e preparazioni sugose. Ne esistono diverse forme, e tra le più comuni ricorrono la banana (in tutto il Veneto), il bigarano (una striscia di pasta di pane arrotolata a forma di filone, tipico del Vicentino), le foglie e le giraffe trevigiane, chiamate corni ad Asolo, e la mantovana.
Imprescindibile poi è un riferimento al pane da tramezzino (tramesin in dialetto), un pane pianco morbisissimo, senza crosta. Anche, anche se la sua origine - come quella del tipico paninetto triangolare - è torinese al Caffè Mulassano, il suo successo si deve certamente allo sviluppo che il tramezzino ebbe nel Veneto, nelle varie declinazioni locali.
Da ultimo, per raccontare con essa una bella storia, abbiamo la ciabatta, un pane che è veneto al 100%. Il racconto inizia nella città di Adria, in provincia di Rovigo, negli anni ’80 del secolo scorso. Il Sig. Arnaldo Cavallari, dopo una carriera nel mondo del Rally, cominciò a dedicarsi all’arte bianca e alla panificazione… che strano? In verità no, non è la prima volta che sappiamo di un panificatore che prima faceva tutt’altro! Ad ogni modo, il Sig. Cavallari all’interno del suo laboratorio sperimentava, impastava e un giorno di fine estate 1982 invitò, per il fine settimana, nel forno sperimentale, tre importanti panificatori: Francesco Favaron di Verona, Aldo Bia di Cremona e Vinicio Bertoletti di Milano. L'obiettivo era arrivare a formulare una ricetta che, al primo punto, prevedesse un'altissima percentuale di acqua, più della baguette. “Settanta per cento...”, sentenziò agli amici. Costoro si guardarono l'un l'altro stupiti, pensando probabilmente stesse impazzendo, visto che fino a quel momento un pane con quella percentuale d’acqua non era mai esistito. La farina che scelse aveva un alto contenuto di glutine, adatta ad assorbire il maggior carico di acqua. Provarono e già il primo test li convinse, capirono di aver imboccato la strada giusta. Dal forno uscì un pane brutto di primo acchito, dalla forma allungata, un po' bassa, con la crosta era rugosa che sembrava avere mille anni. Ma quando lo spezzarono per assaggiarlo avvertirono che la croccantezza non era quella solita: all'interno la mollica manteneva una morbidezza superiore alla stessa baguette e il gusto era straordinario, diverso da tutti gli altri tipi di pane che avevano assaggiato negli anni. “Someia a 'na savata” (ossia Somiglia a una ciabatta) esordì Francesco Favaron. Arnaldo intuì che poteva funzionare: “Ragazzi abbiamo trovato anche il nome: la chiameremo ciabatta”, disse. Stappò una bottiglia di prosecco. Chiusero con un brindisi una giornata che tutti e tre avrebbero ricordato a lungo. Era il 21 settembre 1982. Decise poi di brevettare la sua ricetta (1983) con il nome di Ciabatta Italia, e da allora si dedicò anima e corpo a quella che aveva definito la sua creatura. Uno dei segreti erano quei venti grammi di lievito che utilizzava nella ricetta: quando lo spiegava, infatti, aggiungeva “Come si accende il motore di una macchina? Lo sapete o no? Il motorino dà l'avviamento, dà la scossa ed ecco le scintille alle candele, la miscela aria-benzina determina l'esplosione nelle camere di scoppio e i pistoni-bielle e albero motore cominciano a girare e produrre forza motrice. Il motorino serve, ma solo per dare l'impulso, poi lo si potrebbe anche buttare dal finestrino. È soltanto il tocco, l'inizio. Il lievito ha la stessa funzione: ne basta pochissimo”.